Il weekend appena trascorso mi sono rifugiata nella mia casa di montagna. La domenica mattina, camminando per una delle strade del paese, mi sono imbattuta in una ragazza che non vedevo da più di vent’anni, da quando salivo tre mesi per passare l’estate con la famiglia di mio padre. Stava giocando a pallone per strada con i suoi due figli e mi ha raccontato in due parole che la sua vita si è svolta in una grande città, che ora è tornata a vivere qui e che aveva lasciato i suoi bambini a fare le scuole nel paese. Pur dovendo restare lontana da loro per qualche anno, era stata felice di aver fatto questa scelta perché i suoi figli avevano così potuto studiare in un posto piccolo cullati dalla vita che offre il paese. Portare gli asinelli fin fuori dalla scuola per farli conoscere ai bambini, le visite improvvisate alla latteria per conoscere come si fa il formaggio o le scampagnate nei boschi per studiare i fiori, restano i privilegi dei piccoli centri. Sono rimasta incanta dal suo racconto, da come questa mamma sia stata altruista nel pensare che i suoi figli potevano avere l’occasione di vivere in una realtà genuina e dai valori ancora antichi e di come si sia organizzata per difendere questa visione del mondo. D’altronde certe esperienze ti restano davvero dentro per sempre e fanno di te l’uomo che sarai nel futuro. Io che ho fatto le elementari in una delle prime scuole ad indirizzo montessoriano della mia zona, non ho potuto fare a meno di pensare a come sia stato importante per la mia vita che a scuola mi abbiano insegnato non solo le classiche materie ma anche a riconoscere le foglie cadute dagli alberi nel piazzale, a imparare le vecchie canzoni di montagna e a coltivare il crescione in vaso. Se adesso che ho quarant’anni, quando esco la sera a ritirare lo stendino sul balcone, volgo ancora il naso all’insù per cercare i disegni dei carri nelle stelle e controllare quanta luce fa Venere, lo devo alla scuola che ho fatto. Che è stata soprattutto una scuola di vita, insegnandomi a essere un buon abitante di questo pianeta e ad apprezzarlo sempre.
© Alessia Tagliaferri
Ho l’impressione che abbiamo alzato tutti dei muri a secco attorno alle nostre proprietà. In modo da poterci curare in pace il nostro orticello. Ma sarà del tutto un bene che prevalga l’idea che ognuno di noi sia libero di pensare e agire come meglio crede e che nessuno si debba intromettere mai nei suoi affari? Possiedo una casa piccola con una grande terrazza in cui ho messo diversi tipi di piante e di erbe aromatiche. Ma non è andato sempre tutto per il meglio. E alcune persone che sono venute a trovarmi si sono permesse di darmi consigli e indicazioni su come curarmene e farle fiorire. Mio papà, arrivato per una grigliata a pranzo, mi ha fatto notare che se il basilico fa i fiori bisogna tagliarli e, forbice alla mano, ci ha pensato lui stesso a sistemare le cose. Mio suocero mi ha spiegato perché il mio vaso di pomodori, con le troppe sementi piantate in un piccolo spazio, ha prodotto solo foglie e niente frutti. Una mia cara amica venuta a bere il caffè ha preso la brocca dell’acqua e, senza interpellarmi, l’ha abbondantemente distribuita a noi e poi ai fiori assetati seduti dietro di lei. La mia vicina mi ha fatto cenno da lontano di dare una spinta in dietro al vaso di limoni in modo che restasse bene al sole ma fosse protetto contro il vento dal calore del muro di casa. Devo dire che il mio balcone, dopo tutti questi aggiustamenti esterni, è diventato molto più rigoglioso e adesso è un po' il mio vanto. La saggezza delle mie persone care ha fatto del bene alle mie piante e io ho lasciato fare. Perché credo ancora che i giardini, anche quelli interiori, fioriscano anche grazie all’aiuto esterno. Lasciamo morire di sete l'erbaccia dell’egocentrismo e permettiamo di mettere piede nel nostro orto a chi trova il coraggio di essere un contadino un po' di rottura. A chi si permette di muoverci qualche critica per miglioraci insomma. Infondo al giorno d’oggi per azzardarsi a dire a qualcuno “puoi fare di meglio” o “stai sbagliando” bisogna proprio essergli amico. Volergli molto bene.
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Ero seduta ad un tavolo con due amiche mentre una macchia nera si era messa a correre in cielo velocemente. “Guardate cosa ci viene incontro” avevo esordito rivolta verso le altre che sorseggiavano degli aperitivi senza darci troppo importanza. In quel momento mi ero sentita come le marmotte che fischiano in montagna: allarmi della natura che nessuno prende troppo sul serio. Però io me la sentivo già dentro la sensazione che mi sarei trovata, di lì a poco, in mezzo a un temporale violento come se ne vedono solo in posti molto lontani del pianeta. Mi era capitato, infatti, otto anni prima in una località non lontana da Cancun. Ero sdraiata su una spiaggia di farina e sotto a un cielo che non faceva nemmeno una piega. Un lenzuolo celeste. Ma staccando per pochi secondi gli occhi dal libro che stavo leggendo, mi ero imbattuta in un orizzonte diverso. La linea che incollava il cielo al mare si era dipinta di nero come se qualcuno l’avesse ripassata con un pennarello. Da lì a meno di dieci minuti dovetti assistere alla prima pioggia caraibica della mia vita con tanto di palme che dall’alto si inchinavano fino alla sabbia. Naturalmente il tutto era durato non più di venti minuti e dopo il paesaggio era tornato intatto e immobile. Di sconvolto ero rimasta solo io. Ecco, pochi giorni fa è successa quasi la stessa cosa ma in una latitudine del mondo veramente inusuale per fenomeni di questo tipo. Quando i nostri bicchieri con dentro l’Aperol cominciavano a bagnarsi, eravamo ancora convinte che saremmo state più veloci noi. Invece quella sera finì con corse scivolose, capelli bagnati e macchine da recuperare per mettersi all’asciutto. La furia di quel temporale fece saltare tutti i saluti e ci costrinse a navigare in strade completamente allagate, con l’acqua talmente alta che pensai più volte a certi reportage visti su Sky nature. Soltanto che c’ero dentro io…Dopo vento e pioggia a sufficienza, il mondo mi fece una sorpresa. Comparvero ben due arcobaleni a incorniciare lago e monti. Osservai quel fenomeno come si osserva una rara e insolita bellezza. Mi sembrava di avere davanti un mostro con due occhi, una creatura storpiata. Malgrado il mio cellulare continuasse a riceve quell’immagine scattata da angoli del lago diversi, non sono mai riuscita a gioire di quell’apparizione. Anche adesso, se la ripesco dalla mia galleria, mi sembra di rivedere quelle interruzioni che capitavano ogni tanto nelle vecchie tv, quando tutto diventava grigio a puntini neri e comparivano strisce colorate simili proprio ad un arcobaleno. Quelle parentesi che molti ricorderanno, erano certamente sinonimo di qualcosa andato in tilt ma che dopo poco sarebbe tornato alla normalità. Ma il cielo di Riva del Garda non è un piccolo schermo e temo che non si possa restare semplicemente a guardare. Forse dovremmo provare ad aggiustare qualcosa, perché la semplice attesa non ci riporterà il mondo di prima.
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E se una sera per caso trovi un posto in una piccola piazzetta dove sta per suonare l’orchestra Haydn? Entro senza troppe formalità, c’è ancora il mio biglietto ad aspettarmi. È come se ci fosse scritto su il mio nome e cognome perché questa occasione è lì che mi aspetta da tanto tempo. Direi da “dopo tutto questo”. Ho fatto anche la seconda dose, quindi è la serata giusta. Mi siedo a un metro dalla persona che è con me e poi le sorrido e sposto la sedia un po' più vicina. Sessanta centimetri possono comunque andare bene e si chiude un occhio dato che quello è mio marito. Scruto il cielo e minaccerà di piovere per tutta la durata di un’esibizione che continuo a sperare che non abbia una fine. Ci ridono sopra anche i musicisti. Non si sa se sono più felici loro a suonare rischiando di inzuppare gli strumenti oppure noi che non ce ne importa niente di bagnarci basta che quelli sul palco non smettano di farci divertire con pezzi di Aretha Franklin, Louis Armstrong e Ella Fitzgerald... Si muovono in tanti sulle sedie. Le anche ondeggiano senza potersi alzare ma vi assicuro che le anime si staccano e si mischiano sotto il palco. Le perdiamo tutti perché se ne escono da sole dai nostri corpi e, visto il pregresso, chi ha il coraggio di trattenerle? Improvvisamente arriva una folata di vento che scombina la scena. Un violoncellista, che non ha fermato bene lo spartito con la molletta, perde la partitura che se ne vola ai suoi piedi. Per fortuna quella già suonata. Meraviglioso l’intervento del direttore d’orchestra (anche trombettista) che con una mano continua a suonare e che con l’altra tiene un dito sui fogli ancora utili sul leggio. Finito il pezzo ridiamo tutti assieme mentre il musicista ci confessa di aver guardato le previsioni della pioggia ma purtroppo non del vento prima di dare il via alla magica serata. Mi ritrovo a pensare che è quella degli ultimi due anni di farci sorprendere da qualche aspetto che non avevamo ancora valutato. Un po' di vento stasera non cambierà di certo le cose ma, ben domato, lascerà finalmente prendere un po' il volo. Alla nostra voglia di vivere, agli spartiti e anche ai nostri capelli. …and I think to myself…what a wonderful world…
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Me ne sto sdraiata davanti ad un mare di luglio e non lontano da a me ho un bimbo che costruisce un castello di sabbia. Con le manine piccole e un costumino colorato compatta con tenacia l’edificio usando sabbia d’oro bagnata. Che sogno incredibile costruire un castello di sabbia per metterci dentro tutte queste speranze leggere e facili da scoppiare come bolle di sapone. Come cresce una torre arriva un’onda e la tira giù. Ma il bimbo non si arrende e la ricostruisce nuova di zecca. Ma arriva sempre altro mare. Arrivano sempre altre onde a portare danno al castello. E d’improvviso spunta un papà con una paletta di plastica e che fa? Si mette tra il mare e il castello per costruire un fossato. Una trappola per le onde perché cadano giù e non vadano a infrangersi sul sogno del figlio che impasta torrette senza speranza. E che fatica che fa quest'uomo a scavare un buco dove la sabbia si rimargina quasi più velocemente dei suoi colpi di paletta. Non si scava in una spiaggia dove arriva il mare. La spiaggia non permette buchi nell’acqua… Continuo a guardare interessata. E infatti arriva l’onda alta che scavalca il fossato e che con forza butta giù tutte le torri, l’intero castello. Ma, mentre il papà prendeva tempo con il mare, mi accorgo che il bimbo ha avuto modo di costruire una seconda fortezza. E l’ha fatta più lontana dalle onde, più difficile da buttare giù. Mi rimetto a leggere il mio libro. Ecco come i genitori proteggono i sogni. Per un figlio si riesce a ingannare anche il mare.
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Grazie per tutte le foto che hai fatto di me. Questo mi passa per la mente mentre cammino per la contrada San Tommaso tra vecchi scatti che hanno appeso alle finestre. Sono volti morti da tempo ma gli occhi sono vivi. E mi seguono mentre viaggio fuori e dentro la chiesetta di Sant’Osvaldo dove è in corso questo evento che riporta alla luce scatti privati dei vecchi abitanti di questo quartiere di Rovereto. Uomini e donne degli anni ’20 e ’40, mamme con bambini piccoli tra le braccia, donne in campi di grano, auto d’epoca, due mani che si stringono forte. Resto un tempo infinito a valutare quanto altro tempo sia trascorso tra le loro vite e la mia. Eppure ci parliamo ancora, io e questi sconosciuti appesi in questa chiesetta morta di caldo in questo pomeriggio afoso. Volo al mare con loro. Mi siedo in campagna con loro. Mi intrufolo nella foto di famiglia. E intanto dal giardino accanto volteggiano delle voci fino a qui. C’è una conferenza in corso. Chissà quante delle persone lì sedute sanno che quello era il piccolo cimitero annesso. Da sotto le sedie prendono il volo tante anime che vanno a bussare ai cuori di tutti. Qualcuno le sente di più e qualcuno di meno. Ma ce n’è l’aria piena. Non fermeremo la corsa del tempo con le fotografie. E questo me lo conferma anche il mio cellulare pieno di scatti dove lampeggiano le 18.45. Se non abbiamo il dono di poter andare avanti, possediamo però quello di far tornare indietro. Non ho più tempo nemmeno di restare tra queste magnifiche presenze che mi vogliono trattenere nelle emozioni passate. Grazie per tutte le foto che hai fatto di me. Fammele sempre. Anche assieme a te. Così avremo anche noi il potere di richiamare indietro qualcuno. Nel nostro tempo bello.
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L’ho imparato molti anni fa in un corso di danzaterapia e non l’ho più dimenticato. Mi ero iscritta un settembre, spinta dalla curiosità di capire un po' di più di me stessa, e me ne sono andata molti mesi dopo con un piccolo bagaglio di conoscenze che non ho mai smesso di usare. Una sera mi avevano messo in coppia con una sconosciuta e, una volta spente le luci, avevamo affrontato un esercizio che metteva a contatto i nostri corpi. Quel giorno sono arrivata ad una certezza: abbiamo tutti un cuore che va a batterie e gli altri lo possono sentire chiaramente. Così come la nostra energia positiva o negativa: non bisogna avere certo poteri paranormali per percepirla perché si tratta di una forma di energia molto reale che captiamo tutti al volo e ci scambiamo tra di noi molto spesso. Abbiamo colleghi che continuano a lamentarsi per tutto e ci fanno sentite senza forze? amici che ci creano stress parlando solo di eventi negativi? famigliari che ci fanno annegare nelle richieste di aiuto? Coloro che fanno parte di quelli che hanno energia positiva da vendere, che la cedono a tutti a buon mercato e passano il tempo stemperando i turbamenti degli altri con le risate, sanno di cosa sto parlando. Ed è a loro che consiglio di aprire ogni tanto l’ombrello e tenersi riparati un po' dalle piogge di negatività. Ombrello che io ho portato via dal mio corso di danzaterapia e che mi stringo sempre sottobraccio. Per non ritrovarmi con l’acqua fino alla gola, a forza di cedere energia positiva. E se gli altri insistono a soffiarci addosso venti pieni di malumore, possiamo chiudere anche un po' le finestre filtrando cosa lasciar entrare. Amici scelti con saggezza, nuove cose da imparare e nuove motivazioni che ci aiutino a non mollare mai. E se dovesse assalirci uno scrupolo di coscienza perché abbiamo tagliato corto con qualcuno o abbiamo lanciato qualche “no” in nostra difesa, ricordiamoci che già il Dalai Lama più di cinquecento anni fa diceva: “Se qualcuno cerca un cestino per buttare la sua immondizia, fa sì che non sia la tua mente”. Un buon consiglio rivolto a chi, come noi, ama vedere il bicchiere sempre mezzo pieno. Di ritagliarsi un universo pieno di gente che abbia voglia di godersi di giorno il mondo e di notte le meravigliose stelle. Che magari a forza di invidiare il nostro cosmo luminoso, riusciremo a convertire anche qualche astro negativo a risplendere di nuova luce.
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Una settimana fa mio marito è tornato a casa con una piccola bomboniera. Mio nipote milanese ha fatto la prima comunione proprio quest’anno e a causa della pandemia i parenti e i festeggiamenti sono stati dimezzati. Ma il piccolo oggetto è riuscito a sopravvivere al buio del bagagliaio e ai chilometri di traffico fino a planarmi sul tavolo durante la cena. “Ecco, tieni i confetti” ha esordito la mia dolce metà lasciandomi da sola davanti a un vasetto con dentro una timida piantina grassa. Mangiando una fetta di mela l’ho preso tra le mani e l’ho osservato per bene. Due fili colorati, uno panna e uno color cappuccino, ricoprono l’intero vasetto da cima a fondo alternandosi con precisione. Sono stati evidentemente tagliati con perizia e nel punto in cui si alternano, i due fili sono incollati vicini con estrema attenzione. Sul davanti è ricamata una margherita fatta di corda con un grosso pistillo e sottili petali stilizzati. Non ho potuto fare a meno di riflettere su quanto tempo mia cognata potesse averci impiegato a confezionare quell’oggettino per la festa del figlio. Devo ammettere che io di regali nella mia vita ne ho ricevuto tanti ma se chiudo gli occhi e mi penso bambina mi passano sempre davanti le stesse cose. Le torte che mi impastava la nonna per le prove dei saggi di danza e i vestiti colorati che imbastiva durante le serate ancora fredde di febbraio perché potessi prendere parte a qualche festa di carnevale. Le casette di legno per le barbie fabbricate dal nonno in garage. Le collanine di lucenti perline create dalla mia mamma per le mie personali sfilate di moda in salotto. Questa è la prova che una “palla di pezza”, ovvero anche un oggetto di poco valore, può acquistare un significato emotivo fortissimo, penetrarci il cuore e restare incastonato lì a brillare per sempre. Basta che qualcuno vi abbia aggiunto un po' del suo tempo che, essendo contato, resta come la cosa più importante che si possa avere in regalo. Allora proviamoci a ritagliare dei momenti per gli altri e a cucirvi dentro un po’ di creatività. Non ci costerà nulla, se non lo spendere veramente una parte di noi. E daremo vita a regali low cost che continueranno a parlare a chi amiamo anche per tutta una vita.
© Alessia Tagliaferri
Mi piace sentire i racconti dei posti dove il tempo è indefinito. Quello di mio nonno era il suo orto, tra piccole piante con gli occhi rivolti in su a chiedergli di essere annaffiate. Quello di mio padre è il suo studio. Luogo che è stato per anni inaccessibile e che teneva sotto chiave. Da piccola mi faceva una curiosità che potevo morirci. Mi immaginavo che dentro ci fossero cose mostruose, incantate e segrete ma ora so che ci tiene semplicemente una montagna di libri a cui attribuisce un’anima e una custodia delicate e che vuole proteggere come fossero bambini. Io ci ho messo molto a trovare un posto dove il passare del tempo sia incerto e dove mi sento senza età e un po' immortale. È un incrocio di vie pedonali che parte da piazza del Podestà e che risale silenziosamente verso la Chiesa di San Marco. Da lì, un percorso tortuoso mi accompagna tra vecchi palazzi brontoloni che raccontano con voce roca la storia veneziana della città. Ogni tanto si incontra una targa che narra un pezzo del passato di una Rovereto lontana nel tempo e molto affascinante. Nei giorni di pioggia i passanti, nascosti sotto gli ombrelli, scappano tra porte e scalette e ho spesso l’impressione di aver intravisto qualche vecchio doge. Se percorro quegli stessi tracciati al sole, odo allegre musiche di violini che provengono da luoghi che non raggiungo mai. Ma la cosa più bella è che questo angolo della vecchia città è cosparso di poesie che sono state stampate e appese nei posti più strani. Abbracciano lampioni, compaiono su porte ormai scrostate, su tombini, sui muri e su imposte dimenticate chiuse. E raccontano storie d’amore bellissime. Nostalgia. Assenza. Solitudine. Gratitudine. La Vita. Impossibile non leggere parole, su quei triangoli di carta, in cui si rispecchi l’umore del giorno. E poi ritorno giù verso il chiasso del centro. Ma mi sento più compresa, come lo sarete anche voi ogni volta che fate ritorno dal posto che vi ha assegnato il cuore.
© Alessia Tagliaferri
Quando vado a camminare in montagna io scelgo sempre che direzione mi sta bene. Sinistra o destra ma non mi avventuro mai per le scorciatoie, neppure se sono promettenti, perché si rischia sempre di perdersi nel bosco. E infatti siamo negli anni delle vie di mezzo, che se non avessimo tagliato per il prato forse saremmo già arrivati a destinazione. O forse no? Sta di fatto che ieri è stato il mio compleanno e che ho riflettuto su tutte le mezze misure che avrei potuto adottare e che ho ampiamente evitato. Se potevo, naturalmente. Perché lo smart working, per esempio, che è un lavorare stando assenti da casa me lo sono gustato tutto quanto. Anche in ufficio io sono sempre stata felicemente contro i compromessi. Se un collega non mi andava giù, potevo collaborarci alla grande ma non gli avrei mai offerto un caffè. E così facendo, ci siamo capiti meglio anche con certe persone che poi con gli anni si sono intrattenute con me alla macchinetta. Ma solo una volta che ci eravamo trovati per davvero. E anche in questo tempo di Covid, io so che non avrò fatto una bella figura con tutte le persone che non ho più visto, con quelle che non ho più abbracciato, con quelle che ho salutato con un cenno del capo e niente più. Ma le videochiamate imbarazzanti, gli abbracci di schiena e i saluti con il gomito non fanno proprio parte di me. Se non posso prendere un volo, non piango davanti ai dvd delle vecchie vacanze ma vado alla scoperta dei monti della mia zona. Se non posso godere della compagnia di qualcuno, però vi garantisco che l’ho pensato di più. Anzi l’ho pensato per davvero, cercando di capire quanto era importante stare con lui e anche quanto mi manca. Se non posso accoccolarmi su una poltrona di un teatro, di un cinema o di una sala di concerto, non andrò mai a ricercare tutto questo disperatamente su YouTube. Ma aspetterò. Aspetterò le mie serate live e di abbracciarvi tutti per davvero. Farò di questo tempo, non il tempo del rimpianto ma quello di una trepidante attesa che mi darà la voglia che arrivi un altro futuro. E proverò a scoprire sensazioni nuove a cui non avevo ancora pensato. Perché le vie di mezzo che vogliamo veramente, quelle non arrivano mai. Come i trentun anni a cui puntavo ieri. Mentre ne desideravo venti e ne compivo quarantuno.
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Io faccio parte di quelli che della solitudine hanno paura. E l’anno appena passato, fatto di isolamento e distanziamento, mettendomi in difficoltà mi ha guarito un po'. Sono una donna con il cuore rivolto a sud, dove si pensa che il bello stia nelle chiassose tavolate della domenica e nelle ammucchiate famigliari. Ma vivo in una terra di cuori solitari. Non che qui la gente sia sola per davvero ma nel privato, anche senza pensare che un virus possa essere ceduto con la velocità di un bacio, la gente ama da sempre le distanze e se ne sta naturalmente sulle sue. Sarà colpa del freddo che ha insegnato un po' a tutti a stringersi nei maglioni e arrotolarsi su sé stessi? Vivo fuori dal centro dove non si sentono i rumori della strada e spesso, girando in ciabatte, mi sono accorta che non faccio rumore nemmeno io. L’unico chiasso viene dal mio interno e quelli sono sempre gli unici rumori che sarebbe meglio non sentire. Lavoro da casa e non dovrei uscire. Così dicono. E spesso sono il solo abitante del mio appartamento. O forse no? In questi mesi ho imparato a tendere l’orecchio e ad ascoltare meglio quel tipo di vita che pensavo non avesse a che fare con me. Anzi che potesse disturbare un po' la pace della mia esistenza. Sento indistintamente la voce imponente della prof del mio vicino adolescente mentre scandisce una lezione di matematica in DAD. Il contadino del campo difronte mi fa compagnia con il rombo del trattore e, se mi vede sul balcone, mi allunga zucchine fresche e un po' di lattuga. La coppia al pianterreno ama la musica trap a tutto volume e, quando suona la campana della chiesa, il cane del ragazzo sotto di me abbaia ripetutamente infastidito. Questa casa è viva e mi suggerisce che sono le persone accanto a me a fare la differenza. Ci sono, anche se i muri ci separano e non ci scambiamo una sola parola. Forse per quest’anno si potrebbe rivalutare anche questo aspetto. Che i rumori spesso odiati del nostro condominio e le persone che vi abitano hanno anche il compito di ricordarci che non siamo soli. E che spesso la solitudine è un inquilino della nostra mente. Ben venga se ci spinge a godere della complessa compagnia di noi stessi e di quella più facile di chi ci abita a fianco e a non desiderare più l’isolamento acustico ma a trovare un lato positivo nei rumori prodotti dagli altri. Allora, se non viviamo in una villetta tutta nostra, proviamoci a “indossare” orecchie nuove. E forse giungeremo alla conclusione che i punti da mettere all’ordine del giorno nella prossima assemblea sono solo piccole parentesi di un’animata storia di condominio.
© Alessia Tagliaferri
Vorrei lasciar stampate due parole proprio qui, dove magari possono ritrovarsi altri uomini che hanno fatto da padre a qualcuno. Ma senza esserlo. Io ne so qualcosa e vorrei dire, per una volta, che le etichette contano solo se dentro c’è davvero quello che ci sia aspetta. Qualche giorno fa sono andata in un supermercato e ho comprato una torta agli amaretti. Così diceva la scatola. Quando l’ho assaggiata era semplicemente un dolce alla nocciola. Ecco, questo per dire che a quelle come me è già capitato più volte di non trovare nella scatola quello a cui avevano diritto. Pazienza. La torta alla nocciola era buona, se solo non mi avesse perseguitato tutto il tempo l’idea che avrei dovuto anche addentare, prima o dopo, un amaretto. E così, nello stesso identico e buffo modo, la vita mi ha messo al fianco un papà di emergenza. Credo che fosse la prima volta anche per lui, ad avere una figlia che non era figlia sua. Ma, dopo aver fatto un patto tacito e veloce di lasciar perdere le formalità, abbiamo affrontato molti anni ricoprendo i nostri ruoli come se nella nostra vita non ci fosse mai stata una crepa. Lo ringrazio per tutte le coperte che mi ha buttato sulle spalle nei giorni più bui e durante sonni agitati. Lo ringrazio per tutte le cose che mi ha sussurrato mentre mia mamma non ci poteva sentire. Lo ringrazio per tutti i messaggi che mi ha mandato sul telefono. Mi sono sempre chiesta se avesse una telecamera nascosta per sapere se piangevo o se ridevo anche quando ormai abitavo in un’altra casa. E lo ringrazio per tutti i libri che mi ha comprato e mi ha allungato di corsa senza darci troppo peso. Nelle righe che ho letto c’era il suo inconfondibile tono di voce. Sempre. Siamo in tempi moderni e si parla molto di “famiglia di cuore”. Sono tutti coloro che ci siamo scelti da soli. Perché vogliamo stare con loro o perché loro stessi vogliono stare con noi. Per qualche motivo. E io personalmente ci credo, in questi legami che si possono costruire. Molte volte sono castelli di roccia molto più solidi di quelli fatti di sangue e di sabbia in riva al mare.
© Alessia Tagliaferri
Ci siamo persi nel bosco. E la prova è che quel tronco segnato di rosso lo abbiamo già visto. Abbiamo girato in tondo e rieccoci qui, impreparati a rivivere il marzo di un anno fa. Se non vi siete mai persi in montagna (io sì) vi garantisco che non è una bella sensazione. Cioè è la stessa che state provando ora. E adesso, dove andiamo? Qualcuno ci riprova, convinto che stavolta all’incrocio prenderà la deviazione giusta. Qualcuno torna indietro e si chiude in casa rassegnato. Qualcuno lo si lascia tagliare per il prato verso la primula della vaccinazione. Io al momento mi sono seduta davanti al tronco per pensarci un po' su e queste sono le mie riflessioni. Sognavo un mondo colorato. Volevo che arrivasse qualcosa a stravolgere la mia esistenza. Volevo annoiarmi un po' e poter dimenticarmi per qualche anno della mia caotica, estenuante vita passata appollaiata sulla mia scrivania di operatore turistico a rincorrere gente in viaggio. Volevo mio marito a casa, perché lavora a Milano e con me ci sta poco. Ho avuto tutto quanto in un colpo. Il destino mi ha risposto a modo suo e ora mi dico che bisogna stare molto attenti a come si formulano i desideri. Nove anni fa in un viaggio a Cobá, in Messico, mi trovavo immersa nella foresta e mi sono dovuta arrampicare su una piramide di pietra per uscire con la testa dal fogliame. Sapete cosa ho visto? Una giungla sterminata e senza fine. Un oceano di verde fino all’orizzonte. Tutto ciò che sperimentiamo può servirci in futuro e amo viaggiare per questo. Da ogni posto in cui sono stata mi sono portata via qualcosa per l'avvenire. Ho buttato di tutto nello zaino con la convinzione che prima o poi mi sarebbe tornato utile. Questo è il vero senso del viaggio. A Cobá ho imparato che quando la boscaglia sembra non finire mai, non bisogna arrampicarsi per cercare a tutti i costi qualcosa oltre le fronde ma è meglio restare tra le piante e prendere confidenza con il sentiero su cui indirizzare i nostri passi. E avere fiducia. I nostri piedi possono portarci molto lontano. Sanno andare anche oltre quel confine dove, invece, il nostro sguardo si perde.
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Nel giardino dei miei vicini c’è una palma. Spicca solitaria con le sue foglie lunghe e il tronco di velluto tra piante più montane e tipiche di qui. La guardo nella sua diversità stonata e mi ci rivedo completamente: sono una donna del sud ma con fattezze chiare e ingannevoli. Mi devo rassegnare a questa idea. Da piccola parlavo con un tono altissimo proprio di chi vive nella pianura e deve soffiare le parole con forza contro vento perché arrivino a destinazione. Le persone di qui, invece, sussurrano perché dentro il vaso di pietra di queste montagne anche il più piccolo suono produce un enorme eco. “Abbassa la voce, per favore” è stato da sempre quello che mi sono sentita dire mentre imparavo a smorzare il volume. Ma un entusiasmo esagerato per la vita anche nei momenti in cui non ti offre granché, l’astuzia di catturare il sole e poi spacciarlo per luce propria e la risata contagiosa come un virus buono, non si possono nascondere a lungo in una cittadina di montagna dove la gente è inespugnabile come i rifugi di alta quota. In ogni ambiente mi hanno sempre scoperta in breve tempo: “Tu non sei una vera trentina”. Questa è la conclusione di chi mi ha incontrata in questi anni. Ma il peso di queste parole non può scalfire una consapevolezza già acquisita; piuttosto può aiutarla a venire a galla più in fretta. Così mi sono limitata a interagire come una pianta esotica che si trova a condividere un quadrato di terra con gli arbusti locali. Però adesso che il mondo si sta rimescolando sempre più e che molti di noi hanno dovuto lasciare la propria aiuola, noto che il sentirsi “una specie esotica” è diventato un sentimento comune. Proviamo a mettere radici in contesti lavorativi diversi, cerchiamo di mimetizzarci in terreni per noi innaturali e sopravviviamo anche con un certo successo. La scorsa settimana i valori del TSH mi hanno dato il segnale definitivo. Mi manca iodio e dovrei vivere sulla spiaggia. Chiunque si allontana da ciò che dovrebbe essere o da dove dovrebbe stare, riceve dalla vita continui input che gli indicano quale sia il posto giusto. Ma riuscire a fiorire in perimetri meno confortevoli di quelli di appartenenza, trovo che possa portare bei frutti e qualche volta è proprio necessario per sopravvivere ai tempi moderni. Quindi non abbiate paura a impiantarvi in qualche nuovo campo, anche se dovesse trovarsi molto a nord rispetto alla latitudine abituale. Potrebbe farvi del bene e capirete meglio chi siete. Se prima eravate fuori posto, troverete finalmente pace. Se è solo un orto di passaggio, vi arrenderete alla vostra tiroide tornando in un giardino di una zona di mare.
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Ho l’impressione che questa vita sia diventata un giroscale. Ripartiamo dal fondo. Tutti. E cerchiamo di risalire questa rampa che ad ogni piano ci coglie di sorpresa. Non ci vedo più bene da qualche tempo. I miei occhi hanno perso ulteriori diottrie e temo che il motivo sia che non ho più scuse per gettare il mio sguardo lontano. La scarsa mobilità del mio occhio è dovuta al fatto che devo stare ben concentrata sulle mie scarpe, su dove metto i piedi nel presente, più che scrutare orizzonti futuri. Il gesto quotidiano ormai è girarmi a guardarmi le spalle oppure stare a quello che ho a portata di mano. E così, insieme all’entusiasmo, mi è calata anche la vista. Una settimana fa, mentre salivo per il mio giroscale, si è fulminata un’altra lampadina insieme alla notizia della chiusura del nostro giornale locale “Trentino” dopo ben 75 anni di vita. Il Covid, alleandosi alle nuove tecnologie e alla crisi della carta stampata, ha portato l’editore a questa inevitabile decisione. Si è così tristemente spento un forte proiettore che diffondeva luminose immagini della nostra identità speciale. Che inaspettato blackout: siamo già così barcollanti e ci cala addosso ulteriore buio a toglierci letteralmente la Nostra Terra da sotto ai piedi e a lasciarci il dubbio di come ci percepiremo. Ci resta ancora la versione web e la speranza che qualcuno possa riaccendere l’audio di quella che era musica per le orecchie di molti di noi. Non c’è molto da fare. Continueremo a salire le scale e qualche bravo oculista ci prescriverà occhiali più spessi che ci aiuteranno a non inciampare troppo e a notare che sui davanzali dei pianerottoli ci sono ancora vasi di fiori da ammirare e da annaffiare. Risalendo, speriamo di poter gonfiare qualche palloncino con soffi di felicità e aver la forza di lasciare il filo per vederlo andare in alto. Seguendo il suo volo, con la poca vista che c’è rimasta, potremmo allora gioire nell’intravvedere che, una volta arrivati in cima, c’è ancora una terrazza al sole che ci aspetta.
© Alessia Tagliaferri
Mi sono procurata un biglietto per il 2021. L’ho fatto comunque anche se l’anno che sta finendo non è stata la giostra divertente che speravo, quella che ti fa venire voglia di farti un altro giro. Nei miei primi quarant’anni di vita pensavo di essermi fatta un guardaroba sufficiente per resistere agli sbalzi di temperatura del destino e ai colpi di vento della vita. Ma purtroppo situazioni nuove, arrivate con la violenza di un tornado, hanno fatto volare via i miei cappelli più resistenti. Momenti di gelo mi hanno bloccato i piedi dentro ai calzettoni, tanto da non poter più nemmeno decidere fin dove poter spingere i miei passi. Non sono stati sufficienti i miei chilometri di sciarpe per asciugare le lacrime degli occhi né i maglioni di lana grossa per tenere al caldo l’anima. A quindici giorni dalla fine del 2020 mi guardo e mi è rimasta addosso solo una vecchia giacca che aveva una tasca bucata. Credo che siano scivolati da lì, il lavoro e alcune persone, quando li ho persi. Ce l’ho con me stessa mentre mi chiedo se, forse, sarebbe bastato cucirla. Rifletto così, con un po' di illusione, mentre mi tolgo anche i pantaloni per non sentirmi più così stretta la vita. Ma anche se mi denudo di quel po’ che mi è rimasto, il fiato corto ce l’ho comunque. E solo ora che sono svestita di tutto ciò che potevo indossare, capisco che il 2020 mi voleva spogliare. Me e forse anche tutti voi. Avevamo accumulato armadi di indumenti fino a diventare pieni di strati e adesso, rimasti soli dentro alla nostra pelle, ci toccherà sceglierci nuove vesti. Mi sono procurata un biglietto per il 2021. L’ho fatto comunque perché non c’è nulla di definitivo e quindi non lo sarà nemmeno il freddo del restare a pelle nuda. Nemmeno il dolore. Nemmeno la paura. Nemmeno lo sconforto. Abbandono volentieri questa casa dell’anno tondo, che mi ha privata di tanto mentre cercavo di tornare me stessa. E aspetto con inspiegabile impazienza di entrare nell’appartamento che mi è stato assegnato per l’anno nuovo. Tutto è in affitto. Quindi il mio spazio lo potrò riarredare. Pagherò a rate la felicità di poter rifarmi un guardaroba, che non è altro che il biglietto per andare avanti. Poter continuare a vestire noi stessi e i giorni è pur sempre un privilegio che ci resta. Conto di sorridere a breve in un nuovo cappotto cucito su misura per la mia prossima occasione di vita.
© Alessia Tagliaferri
Vorrei essere dentro a una domenica pomeriggio, in fila alla cassa, con la speranza che sia avanzato un posto laterale perché in un sedile di metà fila io non ci so stare. Dieci posti occupati sulla mia destra e dieci sulla sinistra sono davvero troppa gente per una come me, che a pieno nelle situazioni non ci sa proprio stare. Vorrei sprofondare nel mio sedile ribaltabile a guardare delle immagini che ho già immaginato e a valutare se sono all’altezza di ciò che mi aspettavo. E, abbracciata da tutto quel buio, mi godrei l’oscurità più divertente che si possa comprare. Sarebbe un viaggio in compagnia di trecento sconosciuti grazie a un biglietto di carta da perdere dalle tasche appena si parte. Vorrei essere sola e davanti a voi, piccoli ladri di sguardi, arrivati da altre epoche per tenerci compagnia. Vorrei sfilare al vostro cospetto, pur sapendo che lo spettacolo non sono io. Viaggiatori più di quello che potrò mai essere, preziosi e contesi. Prestati, interpretati e rubati. Siete immobili eppure catturate anime, prelevandole dalle sale dei musei ospitanti. Una guardia mi inviterebbe al silenzio per riuscire a sentire il chiasso dei vostri colori e mi osserverebbe impassibile mentre cado colpita a morte da un’emozione. Vorrei essere su un balcone, ma questa volta al chiuso, a fissare nell’oscurità una tenda rossa di stoffa pesante. Sentirei una sottile agitazione e i miei occhi cercherebbero di sbirciare invano dietro alle quinte. Vorrei sentire i tre campanelli che precedono lo spettacolo e le voci educate che, assieme al fruscio delle pagine del programma, ritornano al posto per non perdersi l’inizio. Vorrei sentire nel naso l’odore della pece in cui avete intinto le scarpette da punta, spiriti leggeri che saltate in alto per dimostrarci che è superabile anche la gravità. Mi sembrerebbe di poter toccare il tulle ruvido del vostro tutù, che veste i vostri corpi impalpabili e mi denuda il cuore. Vorrei poter sentire la musica che mi piace mentre osservo chi la produce. Vorrei lasciarmi consolare da una compagnia teatrale mentre esorcizza ferite e sogni mancati. Vorrei stare a testa in giù insieme a qualche acrobata spericolato e fabbricatore di sane illusioni. Vorrei tutto questo, perché semplicemente mi manca. Non si può stare a lungo senza lasciarsi trasportare in questi posti non visitabili. Sono luoghi della mente, ma pur sempre reali. Mettete un treno, anche da contingentare, ma che fermi in questi universi in cui abita l’arte.
© Alessia Tagliaferri
Era lì da anni. Proprio lì sotto, alla base del terzo dito, sull’avampiede sinistro. In principio era un timido segno rotondo, conseguenza delle mie prime lezioni di danza a piede nudo. Con il tempo si è indurito e si è fatto spazio sulla superficie piatta e morbida della pelle del piede. Si era formato nel punto giusto. Nel punto esatto, preciso che mi indicava dove spostare il peso del corpo per cercare di fare un giro o una pirouette.
Era il mio ‘segnagiro’. Lo cercavo, lo trovavo e … giravo. Non era di certo colpa sua se poi la tecnica non era perfetta. Lui era lì ad indicarmi e a farmi sentire dove potevo appoggiarmi, dove affidarmi.
Un giorno, l’estetista che si prendeva cura dei miei piedi, me l’ha tolto. È stata una piccola e veloce operazione di estrazione e il mio segnagiro ha lasciato il posto ad un piccolo e buffo buchetto.
Ma danzando, il segnagiro è tornato. Si è riformato, più forte di prima. E quando ho iniziato a ballare sui tacchi, lui si faceva sentire, nonostante la soletta morbida e avvolgente della scarpa da tango. Era lì, pronto a segnare dove appoggiarmi per muovermi. Non sempre volevo o riuscivo ad ascoltarlo, ovviamente, ma lui era lì. Lo cercavo con le mani quando mi massaggiavo le piante dei piedi indolenzite e gli facevo il solletico.
Il mio segnagiro oggi non c’è più. L’ho cercato con le mani, con gli occhi, con il peso del corpo. Se n’è andato. Disciolto, come neve al sole. Cancellato, come un tratto di matita leggera da una gomma bianca. La verità è che non ho più ballato. Né da sola, né in compagnia, né in coppia. Non è più successo, non l’ho e non l’hanno più fatto accadere.
Ora, senza quel piccolo segno sotto la pianta del piede, mi sembra manchi molto di più di un punto d’appoggio per girare. Mi sembra di non poter più camminare, prendere una direzione, procedere. Nella vita e nel mondo.
Manchi, danza.
© Giulia Cumer
A chi pensasse che non si torna indietro, vorrei dire che forse si sbaglia. La mia casa è piena di oggetti il cui utilizzo resta un mistero. Per chi entra, non per me. Certe persone ci vedono solo disordine e una quantità di cose che si potrebbero eliminare. Sì, il problema delle case moderne è questo: non c’è la metratura per inserirvi una vita intera e quindi bisogna fare delle scelte. Selezionare continuamente ogni oggetto: tengo quello che mi serve o quello da cui non posso separarmi? Questo dilemma mi si ripropone continuamente. Tutto non ci sta. Ed è per questo che, qui dentro, si è dato il via a metodi creativi di archiviazione piuttosto che lasciarsi andare alla nostalgia. Una pila di vecchi libri fa da muro di confine tra il tavolo da pranzo e la scrivania per lo smart-working, che è arrivata a rubare altri centimetri al mio passato. La scatola di design di un regalo di Natale indimenticabile contiene ora le mascherine e la vecchia cesta di Brownie (il mio primo gatto) è piena di foulard. Ne prendo uno tra le mani e me lo sistemo al collo. Sento l’aria del Garda che mi accarezza la gola mentre sfreccio con la Vespa verso le spiagge. So quale vecchia felpa infilarmi per ritrovarmi abbracciata da te. Un peluche a forma di gallo mi riporta con i miei genitori a un pomeriggio a Volterra. E poi c’è la tazza di porcellana della nonna Giovanna. La tengo ben nascosta tra tutte le tazzine e, nei giorni no, la tiro fuori e la uso. È l’unico modo per tornare da lei. È una porta di coccio per stare insieme, anche se il tempo è solo quello di un caffè. Gli oggetti possono davvero riportarci indietro o tornare al passato proprio non si può? Mi piace pensare che si possa fare qualche eccezione e che il modo per farlo sia nei nostri armadi. Molti anni fa ho portato una vecchia bambola di porcellana da un’anziana signora padovana che l’ha restaurata. Tornando indietro per un attimo fino all’infanzia, si è restaurato anche il cuore della mia mamma. Perlomeno per quel settore là. Forse ci è concesso di rigenerarci con qualche vecchia emozione, se conserviamo le cose che ci hanno portato fin qua. Odio la mancanza di spazio tra i muri moderni. Ti fa fare scelte impossibili. Unico vantaggio, ti fa tirare fuori un po' di creatività.
© Alessia Tagliaferri
Avevo una domenica libera un martedì fa. Ho preso la macchina e ho parcheggiato davanti a una baita sopra casa mia. Ho imboccato solitaria un sentiero in un bosco, spalancando nuovi occhi per ascoltare cosa aveva da dirmi. Da un tronco segnato con una P rossa proviene il rumore che fanno le mie dita nervose quando picchiettano sulla scrivania, soprattutto se sono indietro col lavoro. Non è un picchio. E ne sono sicura. I miei stivali morbidi sono ciabatte che passano incuranti sopra i fogli delle pratiche, colorati di giallo e di arancio dai miei evidenziatori. Cadono lenti e incessanti a terra abbandonati dagli alberi. Come saranno arrivati lassù? Nell’attesa del mio ritorno sono diventati un tappeto di foglie. All’improvviso entro nel tratto di nebbia creato dalle sigarette delle mie colleghe. Questa loro capacità di fare nuvole mi ha sempre infastidita, ma oggi mi va bene di passarci attraverso. Torno di nuovo alla luce. Scuoto la testa per far uscire quel pensiero e libero dalla trappola della sciarpa i miei lunghi capelli. Fanno lo stesso fruscio di qualche abito che non metto da un po' e che indossavo d’estate per uscire a cena. Com’era bello. Mi specchio vanitosa in un corso d’acqua che mi sbarra la strada e il cestino diventa per un attimo una piccola Vuitton. Saltello su qualche pietra incontrata nel sottobosco per ricordarmi anche qual è il suono dei tacchi che non uso più. Poi trovo delle bacche e le lascio sciogliere sulle labbra, come facevo con le caramelle per la gola. Sento come cambiano in bocca. L’anno scorso le assaporavo quasi come una coccola invernale ma era finita lì. Era tanto per fare. Era bello l’autunno per queste cose sciocche e per le tue mani di corteccia. Le stringevo, diventate ruvide per il freddo e per le pellicine. Smetto di accarezzare la superficie screpolata degli alberi perché mi risveglio e mi viene il dubbio che non sia tu. Sbatto gli occhi e guardo meglio cosa mi circonda. Ma, per fortuna, resta tutto uguale. Mani, borsette, fumo, vestiti e fogli della scrivania mi accompagnano fino alla macchina senza abbandonarmi mai. E mi confermano che si può guardare con gli occhi. Ma anche con il cuore. La realtà, a volte, è solo fantasia.
© Alessia Tagliaferri
“Qualche tempo fa osservavo uno dei miei nipotini giocare. In quel periodo si era messo in mente che voleva farlo solo con degli aeroplanini di carta che, puntualmente, gli costruivano i miei genitori. Avevamo la casa invasa da fogli accuratamente modellati a triangolo, alcuni avevano perfino i bordi delle ali ripiegati un po’ in su. Parlo di quelli che gli avevo costruito io. Dopo che mi aveva atterrata con mille richieste di aiuto, ero decollata insieme a lui e a questo suo improvviso e inspiegabile entusiasmo ed ero finita per seguire perfino un tutorial per imparare a creare gli aeroplani meglio rifiniti in assoluto. In quel momento non avevo capito niente ma mi ero posta la domanda di cosa potesse far nascere un’esaltazione tale per un pezzo di carta destinato a schiantarsi al suolo dopo pochi metri. La gioia della sconfitta preannunciata? L’impossibilità strutturale di superare qualche metro? Si sa che i bambini, a volte, si lasciano affascinare da cose che non hanno un vero senso, specialmente se vogliono evadere dagli impegni della scuola. Invece, qualche giorno fa, mi si sono di colpo aperti gli occhi. Stavo leggendo una rivista e proprio io, che da operatore turistico sento le cose più strane sulle modalità in cui la gente intende viaggiare, sono rimasta una volta di più sorpresa. Una compagnia aerea australiana ha messo in vendita dei biglietti per un volo “speciale”. Dove si va? Da nessuna parte. Avete capito bene: chi acquista questo ticket parte e arriva nel medesimo aeroporto perché il volo è “verso il nulla”. Il viaggio ha il solo fine di far provare di nuovo l’ebbrezza di andarsene via e non è nato per raggiungere una meta. I posti sono andati a ruba in dieci minuti malgrado il prezzo molto elevato. L’idea sembra proprio aver conquistato gli australiani. Il tragitto prevede di sorvolare le principali mete turistiche del Queensland, della Gold Coast e del Nuovo Galles per poi rientrare semplicemente alla base. È evidente che dentro di noi ci sia una certa voglia di scappare, magari da una situazione che è diventata un po’ troppo assillante. Sentiamo la mancanza del viaggio perché andare via, molto spesso, è un modo che abbiamo per mettere in pausa le nostre esistenze e concederci di tornare a giocare un po’ ad “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Per vivere davvero ci serve anche nuotare in mari fantastici popolati da pesci disneyani, percorrere lande silenziose facendo due chiacchiere con il nostro deserto interiore, affacciarci da percorsi a picco sui fiordi per assicurarci che ci sia qualcosa di più profondo delle nostre anime e misurare cieli infinitamente stellati per trovare lo spazio per tutto quello che vorremmo ancora fare. Volare. Con la fantasia. Grazie a un libro. Pindaricamente. Con un po’ di immaginazione. In alto grazie a un progetto o una nuova idea. Ma pur sempre di volare parliamo, in tante delle cose migliori della nostra vita. E ora ci manca quel poter andare lassù dove ci sentivamo più vicini a tutto quello che trascuriamo di noi. Per farlo siamo disposti anche a stare seduti per sette ore su un volo che tornerà al punto di partenza. Decollerà il 10 ottobre questo volo che hanno giustamente battezzato “Aereo di linea per i sogni”. Chi si è accaparrato il biglietto ci salirà, si sentirà trasportato lontano dalle faccende del mondo e finalmente ricongiunto al cielo. Siamo fatti per volare, senza dubbio. Anche se non abbiamo le piume”.
© Alessia Tagliaferri
“I miei genitori hanno un Giardino d’Inverno. È una piccola stanza posta su uno dei lati della casa con tende e divani floreali che tirano al giallo. È un luogo particolare e una piccola contraddizione che già di per sé affascina. È una sorta di orto dei ricordi che non sfioriscono mai mentre fuori le stagioni cambiano. A me succede di sentir parlare le stanze della mia casa e mi capita anche in appartamenti che non sono il mio. Credo che alcune voci rimangano sospese nell’aria anche se non le sentiamo più con chiarezza. Che alcune emozioni rimangano incastrate negli angoli, che colino giù dalle pareti e che sia possibile avvertirle anche dopo molto tempo. Restano lì, come se ci fosse una rete da pesca tirata tra i muri dei locali, che imprigiona per sempre risate, urla, chiamate a pranzo e baci della buonanotte. Quando entro nel Giardino d’Inverno vi giuro che sento il trascinare di un mobile sul pavimento. Io so che è il rumore di quando mia nonna, nelle sere d’inverno, scostava il vecchio tavolo dalla cassapanca per sedersi e metteva in palio tre liquirizie per chi vinceva la partita a carte. Riesco a udire il suono dei bicchieri che si urtano durante i brindisi dei compleanni che abbiamo festeggiato in famiglia. Se ascolto bene, ecco il sottofondo di una vecchia televisione che era stata messa lì a trasmettere cartoni animati e mi arriva anche il profumo del pane dolce fatto in casa con sopra un filo di Nutella. Riconosco la voce dei miei genitori disturbata dall’abbaiare di un cane e dal tintinnio dei cucchiaini che urtano i fondi zuccherati delle tazzine del caffè. Ma la mia sensazione preferita è quando mi arriva il forte calore del sole che è entrato dai vecchi vetri durante tutti questi anni. Tante volte mi sono seduta su una delle poltrone di questo giardino per lasciarmi scaldare un po’le ossa. Io qui riesco a prendere il sole anche a gennaio. Ci sono dei posti che hanno ragnatele invisibili per prenderci e restare connessi per sempre con noi? O forse siamo noi che portiamo a spasso tante reti da pesca che si riaprono in certi mari a noi famigliari? Non lo so ma non credo che capiti solo a me. È bello avere dei luoghi dove possiamo cadere in trappola nelle giornate in cui vogliamo decidere noi che stagione è”.
© Alessia Tagliaferri
“Sono arrivata un pomeriggio d’estate in un luogo fuori dalla mia lista. In questo tempo la mia mente se n’è andata in tanti posti sconosciuti e questa volta ho provato a seguirla restando tutta intera. Ma se ti caricano in auto verso una meta che hai scelto toccando un punto a caso sulla cartina d’Italia, perché i confini fuori dalla mappa scottano, si chiama viaggio al buio? Forse. Ma qui abita il sole. Ho attraversato campi accecanti per girasoli lucenti fino a una piccola casa rosa sistemata in mezzo a un panorama. Mi ha accolto una donna a piedi nudi che mi ha dato la chiave. Ci sono tre porte. Una per entrare, una per scappare e una per pensarci su. Ma dove si vorrebbe essere se non in questa casa che ha solo una finestra e pure spalancata su una terra che diventa un puzzle con cui giocare? Un quadrato è giallo, uno è verde e uno è blu, quello che confina con la sola cittadina medievale che si vede prima della fine del foglio. Non voglio più città nel mio disegno e cerco di cancellarla con una gomma ma lei resta là. I giorni scorrono e le cicale cantano di mattina e al tramonto anche di più. Tengo aperta la finestra anche di notte perché dietro le colline c’è il mare e il vento della sera raccoglie per me aria salata, graffia via sogni incastonati nelle baie del Conero e me li porta puntualmente fin qui. Abbiamo fatto un patto. Prima di stendermi ne prendo uno in compressa per dormire sonni affollati di pesci, lontana da tutti voi, mentre aspetto che mi raggiungiate. Gli alberi oscillano il capo per dire che non verrà nessuno. I gatti si rotolano giù dalla collina, come facevamo da ragazzi, a dimostrare che le zampe alle volte servono ad accarezzare il cielo più che ad andare sempre da qualche parte. Siedo sul bordo del prato per vedere se posso ruzzolare anche io, in mezzo a tutta questa pace e ai ricordi belli, mentre vi aspetto e lascio la mia anima a fare capriole. E quando sono a testa in giù capisco che siete già qui con me e che sono riuscita ad incastrarvi tutti perfettamente nella mia esistenza, voi che siete i pezzi del mio paesaggio. E capisco anche che sta per piovere e devo ritirare dal filo i pensieri belli che avevo lasciato ad asciugare”.
© Alessia Tagliaferri
“A guardare bene in questa situazione ci sono degli aspetti insoliti. Ieri stavo in fila fuori da un piccolo negozietto di prodotti siciliani e mentre annusavo l’odore intenso di alcuni pomodori in cassetta, appoggiati vicino alle mie scarpe, mi chiedevo come mai certi profumi riescano a zigzagare tra le trame della mascherina fino ad arrivare al mio naso. Ma il virus dicono di no. È in questi momenti che mi accorgo che in tutte le corse della mia vita mi sono spesso dimenticata di guardare alle cose più belle. Adesso che sono costretta a stare immobile fuori dalla porta di un negozio minuscolo, riesco a sentire quanto sia fresco ed estivo il profumo del pomodoro. Basta quello per sentirmi già su una sdraio sotto un pergolato in fiore ad Ischia. Inebriata, alzo gli occhi al cielo per trovare qualche altro passatempo e vi dirò che non ho mai visto nemmeno quella madonnina dipinta in un angolo sotto al tetto del vecchio comune. Se ne sta lì, azzurra e malinconica, a guardare che facciamo noi al piano di sotto. Sono tempi scombinati. La gente passa e sorride a volto tutto scoperto oppure ti viene incontro con una FFP2. Dipende da come è stato prima, da cosa ha dentro e da cosa crede che succederà poi. È come in quelle mattine di ottobre dove vedi passare un ragazzo in maglietta ma anche un signore che ha già attorno il cappotto e tu sorridi dell’indecisione del mondo davanti a una stagione che ognuno interpreta come gli pare. Siamo tutti pezzi di questo grande organismo che tenta di farcela, che prova a uscirne fuori da questa malattia. Non siamo dei singoli ma tutti piccole cellule del corpo della Terra e ognuna reagisce come meglio riesce a questo sforzo comune. I modi di vivere che erano nati e che si erano incagliati in diversi angoli di mondo hanno buttato le ancore su tutte le spiagge. Si son messi a circolare per il pianeta, più virali del virus stesso diventando armi per tutti. E così con la filosofia zen orientale respiriamo con un unico polmone da Tokio fino a Cancún. Inspirare ed espirare per dimezzare ogni problema. Viene dall’India il bello di viversi ogni singola giornata che poi vedremo se arriva anche un domani. Dal mondo industrializzato percepiamo di prenderci tutto quello di bello che ci passa sotto mano ma senza farci tanti scrupoli. Dal sud del mondo è arrivata la voglia di ballare anche senza un senso su un palcoscenico mondiale fragile come un biscotto, dai nostri balconi a qualunque altro posto ci pare. Serviva un disastro così per farci apprezzare il punto di vista di tutti e sentirci un cuore solo? Non lo so ma mentre me ne sto qui davanti a questa porta indossando un vestitino preso in Sudamerica e una mascherina per proteggermi da un virus cinese, penso che dopo aver comperato un cannolo siciliano al pistacchio farò tappa dietro l’angolo per portarmi via anche un Kebap, che solo a morderlo ti senti già su un Kayak al largo di qualche baia della Turchia. E non mi sono mai sentita così tanto coinvolta con tutti. Non mi sono mai sentita così tanto cittadina del mondo nel bene e nel male”.
© Alessia Tagliaferri
Ieri notte mi sono svegliata di colpo sognando di ricordare dove l’avessi persa. Rilassando la mente mi capita di avere delle intuizioni su ciò che accadrà nella vita degli altri o, a volte, su cose che non trovo più. Purtroppo questi colpi di consapevolezza non riguardano mai come finiranno quei miei mezzi sogni che sono cose che dovrei fare come donna ma che mi convincono ancora solo a metà. Peccato. È un talento sconclusionato. Avevo sognato, stavolta, quello zainetto che stavo cercando da settimane. Lo avevo usato a gennaio in Valle e poi ci eravamo ripiegati insieme in un armadietto buio in attesa di avere il permesso di uscire e riabbracciarci come due koala in cerca di natura. Puntualmente l’ho ritrovato e anche nel luogo del sogno ma all’interno non c’era quello che cercavo. Forse prendendo questa sparizione in modo troppo serio era come guardare nella direzione sbagliata. Quando giochiamo a nascondino perdiamo e ritroviamo addirittura i nostri migliori amici. Un attimo dopo una conta magica non c’è più nessuno e poi, in sella a urla e risate, ritroviamo gli altri e noi stessi così facilmente...“Ara beràra…cunceda curnara…” Con questa cantilena nella mente e i piedi scalzi ho raggiunto un lago del basso Trentino che è un piccolo specchio d’acqua nato da una frana e che assomiglia alle anime che ci sono in giro ora. Alcune con i fondali carichi di rami spezzati e altre divenute piccole piante carnivore che riemergono a fatica per fiorire. Era un mercoledì qualunque e vuoto di ogni presenza e ho imboccato da sola una strada tra i faggi, segnalata da uno di quei cartelli di legno colorati di rosso che si trovano qui: “Giro delle Cimane”. Quando gli altri sono nascosti si impara cosa sia la solitudine e che può essere dolce se ci facciamo bastare quello che abbiamo, come si fa quando si vuole improvvisare una spaghettata di mezzanotte con quello che si trova nel frigo. Dopo 40 minuti di ricerche su un sentiero sterrato, il mio cartello rosso indicava una deviazione che dava dritta nell’erba alta e con la via segnata dagli scarponcini di qualcuno che aveva calcato quel prato prima di me. Un percorso tracciato da un’esperienza di qualcun altro più che da un’indicazione vera. Ma alla fine ci capita spesso in questa vita di provare a seguire le orme di qualcuno. Infatti è stato lì, con il prurito sulle ginocchia causato dai fili di tarassaco e dalle foglie di ortica, che l’ho vista. Stava seduta su una panchina di legno al limite del precipizio, proprio dove il prato si butta verso il panorama. Con dietro due monti a farle la guardia al posto mio. Teneva le gambe a penzoloni e mi ha fatto la linguaccia prima di alzarsi e correre verso il limite con il bosco solo per il gusto di farsi prendere. ...“Ara beràra…cunceda curnara…” L’ho rincorsa come faccio da sempre. Mi sono tuffata tra gli alberi anche io. Ho seguito le sue risate, ho fiutato la sua spensieratezza e la sua voglia di farcela in ogni situazione. Finalmente è ricomparsa proprio davanti a me sulla strada e mi ha guardato a distanza dritta negli occhi, come fanno i cerbiatti sorpresi dalle macchine che scendono pian piano dalle malghe. Mi sono avvicinata cauta tendendole la mano e dicendole di smetterla con questo nascondino. È rimasta ferma. Allora io mi sono inginocchiata e le ho sistemato la maglietta, me la sono stretta al petto per riempimi di lei e le ho chiesto, come alla figlia che non ho mai avuto, di continuare a giocare con me ma di ricordarsi anche di farsi trovare. Poi me la sono caricata in spalle e ce ne siamo uscite, io e la mia libertà, al ritmo della nostra cantilena. Nell’ombra di questa strada ma verso la luce si poteva sentire nell’aria...“Ara beràra…cunceda curnara…”.
© Alessia Tagliaferri
“Nel quartiere dove abito c’è una vecchia cabina rossa del telefono. Non ho mai capito cosa ci faccia lì in cima al paese, sembra dimenticata. Durante la quarantena, quando scappavo di casa per fare spesa di aria, ci passavo spesso davanti e mi chiedevo se se la fossero scordata lì quando avevano deciso di rimuovere le altre. Ogni volta che la vedevo, avrei voluto entrarci per provare a fare quella chiamata.
Mi ricordavo di aver letto una storia strana riguardante il Giappone. A Otsuchi, in un punto panoramico a picco sull’Oceano Pacifico, esiste il “Kaze no Denwa” in italiano è “il telefono del vento” creato un anno prima che avvenisse lo tsunami del 2011. È un apparecchio che non è più in funzione per chiamate regolari ma solo per conversazioni speciali. Come questa postazione pubblica vicino a casa mia.
Ieri sono tornata lì, alla mia cabina, che non ha una meravigliosa vista sull’infinito blu ma solo sull’area industriale di Rovereto e ci sono entrata. Ho spinto le porte rosse e mi sono trovata sola davanti a un telefono brutto e ad una tastiera senza numeri. Da lì il paesaggio esterno era attraversato dall’enorme scritta grigia e rossa “Telecom ”. Ho deciso di chiamare casa.
Ho alzato la cornetta e ho guardato oltre la scritta in attesa di risposta. Finalmente dall’altra parte del telefono ho sentito il suono delle campane di Vilminore che arriva chiaro anche oltre la porta a vetri della nostra mansarda. Ho sentito l’eco delle voci allegre dei ragazzi di casa che da sempre fa le corse fino all’ultimo piano del giroscale. Ho sentito il ticchettio metallico dell’ orologio a cremagliera con cui non sono mai andata troppo d’accordo e che si comporta come un nonno dispettoso bloccandosi apposta quando entro in casa io per darmi la responsabilità del fatto che perde colpi. Ho sentito il rumore troppo forte della piccola lavastoviglie della cucina che strilla come una matta perché non la usiamo quasi mai. Ho ascoltato anche i canti di montagna che arrivano solo in certe notti invernali e che, come una ninna nanna, avvolgono la mia camera da letto che, anche se resta chiusa mesi, ha sempre un’aria fresca da alta quota che fuoriesce dai ghiacciai delle fotografie appese. È un rifugio privato che mi protegge come un pile.
Ho cambiato orecchio per ascoltare un altro lungo silenzio mentre la linea cercava di connettersi con un posto forse più lontano. A un tratto le ho sentite, chiare, le parole di Wally. Con la sua voce affettuosa mi ha preso in giro come era solito fare quando salivo in paese. Mi ha detto: “ Tè la dó mé a té…”. Io non ho mai imparato il dialetto bergamasco perché non sono di là e non gli ho mai chiesto la traduzione di questa frase, ma mi sono sempre immaginata che suonasse come un “ti voglio bene”. Ho stretto di più la cornetta per non lasciare andare questo telefono da cui l’ho potuto sentire per l’ultima volta.
Non sono una scalvina per davvero ma lo sono dentro. Nel portafogli porto tutto l’anno una tessera del CAI scaduta e il desiderio di tornare a Vilminore. E’ l’unico posto al mondo dove non ho mai avuto brutti ricordi. Dormo scomoda ma lì faccio solo bei sogni. Ho sempre fame e respiro fino alla pancia. C’è il panorama più immobile del mondo a confermare che ci resta sempre una qualche certezza. C’è il silenzio più lungo e meno pauroso che abbia mai sentito.
Ci hanno detto per tutto questo tempo di restare chiusi in casa, ma nessuno ha pensato dove può davvero essere la casa di ognuno, magari è un posto lontano da dove si abita o anche le braccia di una qualche persona.
Adesso ci tocca provare a riprenderci tutto. Dobbiamo superare un po’ di paura e accorciare ancora un po’ di più le distanze geografiche e umane se vogliamo davvero tornare a casa”.
© Alessia Tagliaferri
Avevo messo piede da pochi giorni a Bayahibe quando mi ritrovai a ballare in gruppo su un piccolo aliscafo dominicano diretto all’Isola di Saona, famosa per le stelle marine giganti. A Capo Verde ero andata in visita ad una scuola elementare e restano indimenticabili quei bambini scalzi che, mettendomi le braccia attorno al collo, sembravano volessero dirmi: “ Stringimi, che non mi abbraccia mai nessuno”. Il pellicciotto arancio che ho appena chiuso nella scatola del cambio di stagione viene da Londra. Dopo aver frugato ovunque in un mercatino dell’usato e aver provato di tutto, avevo comprato proprio quello ma in un negozio normale. Ho ancora in mente il sapore della salsa Tzatziki di quel ristorante dell’estate scorsa. Un locale nascosto in cima a una piccola isola e tanto cibo locale che scambiavo sorridente con i miei nuovi amici conosciuti proprio in Grecia e provenienti tutti, casualmente, da Milano.
Ho sempre viaggiato solo così perché, in cuor mio, vivere tutto da vicino è quasi l’unico modo per farlo. L’altro è il mio lavoro. Da più di dieci anni sono tour operator di un’ agenzia di viaggi del Lago di Garda e per me lavorare è anche un po’ viaggiare. Organizzo tour per tedeschi che vengono in Italia e programmando fin nel minimo dettaglio gli itinerari, costruendo il loro percorso, mi sposto un po’ anch’ io. Una volta, ero a cena con un’amica di famiglia che mi chiese quando ero stata nelle Cinque Terre. Si era molto sorpresa nel sentirsi dire “ mai” ma io le avevo spiegato che studiavo ogni piccolo spostamento che avrebbero fatto i turisti dei tour la cui organizzazione era affidata a me da parte dell’azienda. Conoscevo tutti i piccoli paesini, le tratte da fare a piedi, in barca e in treno, i punti dove fermarsi a vedere il panorama e cosa si sarebbe potuto ammirare da lì, in quali ristoranti si mangia il miglior pesce della zona e quale hotel bisogna scegliere se si vuol dormire vista mare. Così facendo, ho lavorato e viaggiato con la fantasia per tutto questo tempo e, tra una prenotazione e l’altra, mi sono concessa di entrare con google maps nei luoghi più belli d’Italia. Nei momenti di troppo stress, staccavo dal pc e cercavo in rete quanto bella fosse la Torre del Mangia a Siena e mi guardavo quanta neve si vede dai finestrini del Bernina Express quando sale a Ospizio Bernina, il punto più alto della tratta ferroviaria. Sono sopravvissuta così 40 anni: d’estate liberando la mia voglia di viaggiare e facendomi aiutare da lei a fare la valige per qualche bel posto del mondo; d’inverno tenendola seduta a fatica sulla sedia dell’ufficio a fianco a me e distraendola, come si fa con i bambini, con tante immagini in rete, sensazioni e promesse di spostamenti futuri.
Ora tutti mi chiedono come si potrà viaggiare d’ora in poi. Mi giudicano un’esperta ma sono più impreparata di loro. Attualmente non posso organizzare niente perché i confini con l’estero sono ancora chiusi e, anche fossero aperti, non verrebbero i viaggiatori di gruppo che sono il target della mia agenzia. Tutto quello che so, è che sarà un viaggiare pieno di barriere. Leggo degli stabilimenti balneari organizzati con divisori di plexiglass, degli hotels dove non c’è nessun sorriso alla reception ma si fa tutto prima e dopo il soggiorno (eccetto dormire naturalmente), di persone sedute in ristoranti con tavolini dispersi qua e là la cui alternativa è solo il take away. Ho visto che a New York, addirittura, si sta sperimentando di entrare in una palla di plastica per camminare nei centri storici indisturbati e senza dover entrare in contatto con gli altri pedoni. Hanno lanciato anche i bubble hotels un po’ in tutto il mondo; i più belli sono vere e proprie bolle trasparenti create per stare al massimo in due, isolati, a godersi il cielo stellato dall’ interno di questo romantico marchingegno.
Insomma il viaggio e il mondo che dico io, sono roba superata. Dobbiamo tenerci le mani in tasca, gustare cibo (meglio se cotto) ed evitare di gironzolare a caccia di specialità locali i cui batteri non si potrebbero più azzerare solo con un po’ di Enterogermina. E’ pure meglio respirare con cautela e sicuramente a pieni polmoni solo se ti trovi nel cuore delle Dolomiti e abbastanza alto da non avere un ciclista affaticato che ti si affianca ansimando e che ti costringe, per dieci secondi, a trattenere il fiato per precauzione. Tre sensi su quattro, in questo nuovo modo di viaggiare, dobbiamo tenerli, insomma, a freno. Ci resta un senso. Quello che sta salvando anche i nostri rapporti sociali dall’inizio di questa quarantena.
Nessuno ci potrà impedire di ammirare favolosi tramonti e correre con lo sguardo lontano, fino a perderci, qualsiasi spazio avremo davanti. Sorrideremo con gli occhi a gente straniera che incontreremo imbavagliata sui nostri percorsi. Getteremo occhiate in giro per trovare cose mai viste e fotografare mentalmente qualche incontro strano montano o marino. Il nostro sguardo abbraccerà tutto quello che non avremo avuto modo di abbracciare noi e sarà per noi un vero e proprio esploratore che si chiuderà al buio, finalmente, solo per dormire.
Mia nonna, che non avrebbe saputo vivere al tempo di questo virus, che impedisce di bersi in libertà pure una tazza di caffè con qualcun altro, mi ha lasciato tante cose. L’ho pensata spesso in questi giorni. Lei sarebbe stata un’abitante stonata in questi tempi moderni virtuali, ma proprio per questo è divenuta anche un’ ispirazione di salvezza. Con le sue vecchie ricette, ha contribuito al mio buonumore in quarantena e con i suoi modi di dire semplici, mi suggerisce soluzioni alla vita che si evolve. Fosse stata qui, mi avrebbe detto: “ Guardare e non toccare è cosa da imparare”. Prendo anche questo messaggio e me lo porto via per l’estate.
© Alessia Tagliaferri
La Fase 2 è iniziata e indosso la mascherina per uscire. Mentre me la sistemo allo specchio del bagno vedo riflessa una persona potenzialmente pericolosa. Con la bocca e il naso imbavagliati da quel tessuto chirurgico non mi riconosco più, se non fosse per gli occhi che mi sembrano azzurri come i miei. Nell’immagine che avrei voluto lanciare nel mondo non c’è mai stata questa e, invece, sto per uscire in mezzo a tutti mascherata da umana infetta. Mi sale il magone pensando di non poter cambiare questo messaggio e di non essere nemmeno io sicura che sia del tutto sbagliato. Sarò davvero tutto quello che penso di me?
Nessuno sa più niente di niente. A chi ci interpella non possiamo offrire nessuna garanzia. Siamo come la lavatrice che sta con noi da quindici anni e che, se la senti tossire un po’, non vuoi sapere se ha un problema.
Siamo tutti irriconoscibili fuori e dentro. Abbiamo perso il nostro io da qualche parte quando ci siamo accorti che la Terra si è stufata di noi e ha tagliato il cordone ombelicale. Ci ha detto: “ Arrangiatevi, siete diventati grandi e ora potete combattervi le vostre nuove battaglie senza la protezione che vi dava la mamma.”
L’ unica protezione attualmente disponibile è azzurra e di carta. Se la metti male può soffiartela via il vento e se la metti storta non serve più. Eppure, come degli astronauti, abbiamo rimesso il piede incerto fuori di casa piantando la bandiera a più di 200 metri dalle nostre porte. Facce stralunate, dribblando gli altri che vengono dal lato opposto e zitti dietro le nostre mascherine, ci ritroviamo a camminare facendo spesso anche strani incontri con creature che sconfinano nelle nostre vite.
L’Arca si è rovesciata senza preoccuparsi se sapevamo nuotare e adesso, in qualche modo, dobbiamo metterci in salvo. Ma come?
Forse potremmo immaginare un mondo dove possiamo parlare con gli animali per farci insegnare a rispettare le cose, dove le persone costruiscono finestre solo per vedere meglio il sole, dove si potrebbe affondare ma solo dentro gli abbracci accumulati lungo i mesi, dove la fede si potesse regalare, dove il vento ci potesse dire che, malgrado tutto, non si smette mai di respirare.
Io penso che la creatività salverà il mondo. Se ci sembrava impossibile che la nostra vita potesse diventare così, allora io comincio a credere nel sogno di un pianeta che possa essere anche migliore. Dove le persone troveranno forze che non sapevano di avere, umiltà che avevano dimenticato, cura dell’altro della quale non si preoccupavano più e soluzioni inaspettate agli enigmi che attualmente non hanno risposta.
È una nuova realtà che ha una sua matematica piena di algoritmi sconosciuti e l’umanità può risolverli solo imparando a contare su un modo di pensare che sia del tutto nuovo. Questa è la soluzione che ci viene richiesta. La Terra ci ostacola ma solo per farci crescere ancora.
Se rispolveriamo sogni assurdi e spingiamo il baricentro fuori di noi, allora riusciremo a mettere piede in un mondo più evoluto in cui poter ricostruire tutto seguendo una luce che ci permetterà di non andare più a dormire al buio con mille paure.
© Alessia Tagliaferri
Ti racconto questa faccenda perché sei l’unico che non mi giudicherebbe.
Tutti pensano che pizzico ma in realtà io ho una domanda sul mio becco. Mi sembra un po’ più lungo del normale e la parte superiore tende a piegarsi verso il basso. Secondo te ho un problema?
Ho un problema, l’avevo capito, ma non posso farci nulla sono nato un po’ speciale e ho già fatto non so quante visite mediche per tutte le stranezze che ho. In ogni posto che ho girato mi sono fatto dare un’occhiata da qualche dottore e adesso tutti questi occhi me li porto sulla schiena che magari mi proteggono dai prossimi infortuni.
Viaggiatore e mezzo ladro vengo da Jodhpur, la città blu del Rajasthan. Dove vedo una cosa che mi piace, io la prendo in prestito per portarla in qualche altra parte del mondo e farla vedere a qualcun altro. Credo nella condivisione, anche delle cose belle e, badate bene, io non rubo ma farò due volte il giro della Terra per restituire tutto.
Il bel blu che ora indosso l’ho preso proprio a Jodhpur; mi piaceva e me lo sono messo al collo. In Giappone ho trovato un ventaglio con cui mi sono sentito subito amico perché si agitava sempre come me. Hai presente quell’arnese che quegli uomini con gli occhi a mandorla hanno costruito ispirandosi all’ala dei pipistrelli? Era gigantesco e me lo sono infilato nella tasca dietro dei pantaloni. Il problema è che quando si muove ed esce per respirare un po’, urta il cassetto delle visite mediche ed escono fuori tutti gli occhi dei dottori con i loro referti … ogni volta è una litigata. Voi umani, invece, sembrate molto interessati alla mia salute e forse anche al mio archivio, infatti quando si apre questa ruota di documenti che vi fissano restate sempre molto incantati.
Il colore arancione che ho sotto la pancia l’ho preso dalle patate dolci americane quando dal Giappone sono arrivato là. Un contadino del posto, sapendo che avevo già 15 anni, mi ha ingozzato di questi tuberi e io ho cominciato a colorarmi. Dopo aver fatto una visita medica per il mal di pancia, ho scoperto che queste patate non fanno invecchiare e allora me le sono portate in Sudamerica lasciando un po’ di macchie arancio qua e là …
I pavoni vivono circa 25 anni ma io ho bisogno di tempo per fare due volte il giro del mondo.
Le mie zampe sono dei fenicotteri messicani e la corona che ho in testa era dell’ attuale regina inglese. So che la sta cercando ovunque. Gli altri colori del mio piumaggio li ho presi in prestito dalle oche pigmee in Africa e sinceramente solo per fare un dispetto. Mi facevano venire il mal di testa con i loro voli a zigzag.
Nella mia vita ci sarebbero mille storie da raccontare e se volete lo faremo più avanti.
Da circa tre anni mi trovo a Riva del Garda, in Italia, ma qui ho dei problemi con la circolazione cioè mi sento le gambe gonfie e ho anche un brutto rapporto con le strade.
Da un paio di mesi c’è stato una specie di stop e tutti si sono presi, credo, un po’ di ferie. E’ stato come ritornare in India. Lì puoi camminare tranquillamente in mezzo alle vie e non esistono questi scalini che i rivani chiamano marciapiedi! Il punto è che le signore di via Bresadola si sono messe in testa di farmi tutte da infermiere. Mi controllano una alla volta, sospetto che abbiano steso dei turni di guardia e se esco in strada mi rincorrono con la scopa. Non ho capito se vogliono che faccia tutto il giorno le “vasche” nella loro via, come se fossi in una corsia di ospedale, o se hanno solo paura che vada sotto una macchina e che finisca in pezzi al pronto soccorso. Tutta questa premura mi fa sentire talmente sicuro che per il momento ho fissato qui il mio domicilio.
A loro va bene tutto di me. Le mie corse in statale per sgonfiare le zampe, le mie incursioni nelle case per controllare se ci siamo sempre tutti e le mie odi alla cipolla fatte dal tetto a squarciagola che intono solo nelle notti estive in cui ho caldo e non riesco a dormire. Le ho soprannominate così perché quando le faccio le mie signore piangono, cadono dal sonno e nessuno alla fine riesce a riposare …
Non ho ancora deciso cosa prenderò a Riva del Garda perché di cose belle da portare via ce ne sono fin troppe. Mi sto aggirando qui da tempo per scegliere bene. Ho sentito che qui si produce anche un liquido simile ad oro giallo che non ho ancora ben capito che cos’è. L’unica certezza resta che, come sempre, non posso fermarmi nello stesso posto molto a lungo quindi una volta fatto il furto me ne andrò.
Ciuffo (il pavone di Jodhpur)
© Alessia Tagliaferri
Negli ultimi anni ho sempre snobbato i social, li trovavo il modo peggiore di fare amicizia e il migliore per condividere con estranei il nostro mondo interiore più intimo e intoccabile. Dopo una breve esperienza con il tanto amato “Faccialibro”, ne avevo già abbastanza di incursioni non richieste e notifiche continue e avevo provveduto a non accedere più al mio profilo. Naturalmente questo non basta a chiudere con il tuo “social-passato”, solo a sospenderlo un po’. Però la mia proverbiale chiaroveggenza, per la quale sono nota in famiglia, non aveva sbagliato nemmeno stavolta.
È bastato il battito d’ali di un pipistrello dall’altra parte del globo (questa una delle tante versioni di questa storia assurda) per rivoluzionare la vita di tutti. E adesso ci siamo dentro fino al collo. Siamo tutti in casa senza poter uscire, questo è il nuovo mondo ai tempi del Coronavirus. Come sto è diventata la domanda principale da porre a me stessa e a tutti i miei cari. Tra qualche giorno compirò quarant’ anni provando lo sbalzo termico peggiore di sempre. Primavera fuori e inverno dentro, anche questa emozione la metto nel pacco delle esperienze che si dovevano fare.
Questo è il nuovo tempo in cui le riunioni di condominio sono sinonimo di allegre chiacchierate dai terrazzi piene di parole di conforto se ti senti giù, in cui contarsi dal balcone e vedere se stiamo anche oggi tutti bene è diventato un rito tra vicini, in cui lanciare la copia di una rivista nel prato della ragazza che abita di sotto è un gesto di solidarietà femminile.
Ma la cosa che mi viene insegnata di più, ai tempi del distanziamento sociale, è che i tanto odiati social qualcosa di bello lo hanno anche loro. Mi dà felicità videochiamare le mie tre amiche fraterne e notare che c’è una certa democrazia nello spazio quadrato che sullo schermo è di ognuna di noi. Mi dà gioia il video di mio nipote postato in rete che gira per casa toccando gli oggetti per dirli in inglese, le continue mail che ricevo dai miei clienti tedeschi piene di teutonici sorrisi, i whatsapp dei miei colleghi che mi mandano ritagli del giornale di oggi che parlano di turismo (la nostra professione), la voce al telefono di mia mamma che, irriducibilmente allegra, mi dice “andrà tutto bene”.
Oggi le finestre sul mondo sono davvero anche quelle virtuali e, per ora, l’unico modo per abbracciare chi amiamo.
Continuerò a preferire le braccia gettate al collo dei miei cari, le strette di mano dove puoi misurare quanta energia vuol passarti l’altro e le parole sussurrate all’orecchio. E forse, chi le aveva sottovalutate, farà lo stesso bilancio che faccio io e le rivaluterà. Però ho imparato a dare un valore a tutto ciò che ci avvicina agli altri, anche se è azzurro, invadente e assomiglia tanto alla televisione. Il mondo vecchio e quello nuovo hanno entrambi il loro peso e ora li metterò con più cura sui piatti della mia bilancia personale, trovando un nuovo, perfetto equilibrio per entrambi.
© Alessia Tagliaferri
Un’onda si alza dal letto d’acqua nero e si sdraia di nuovo allungando le braccia sulla spiaggia deserta di San Leone in Sicilia. Un grandissimo stormo di uccelli sorvola con grandi disegni Tramonti, polmone verde della Costiera di Amalfi. Non ci sono passanti a poter immortalare uno spettacolo così raro durato solo una manciata di secondi. Nel frattempo gli zoccoli di un cinghiale rimbombano sull’asfalto del centro di Orgosolo osservati dagli occhi dei murales e un gatto miagola da una finestra dentro la conchiglia di Piazza del Campo che gli restituisce un’ eco forte che gli ritorna senza incontrare ostacoli. Salendo a nord, i sedili di una seggiovia della Via Lattea dondolano silenziosi sul panorama calmo e innevato mentre un semaforo va in tilt in Corso Buenos Aires ma non si scontra nessuno.
Gli abitanti del Condominio Terra sono gente variegata e chiassosa e soprattutto sono in tanti. In qualcuno degli appartamenti c’è sempre vita: è un palazzo che non dorme mai. Se alcune case si spengono, è solo perché se ne accendano altre dal lato opposto. Non esiste un buio totale, uno stop globale. Almeno fino ad ora.
Nelle braccia della Nonna ci vengono offerti ogni giorno spettacoli e risorse. La stessa acqua che lei ci dà da bere, la usa per cullarci in bagni caldi ai Caraibi e per costruirci ponti ghiacciati dove mettere i piedi al sicuro se stiamo camminando a nord.
Crea in cielo bande luminose verdi e azzurre per darci notti stupefacenti e gioca con noi nascondendoci il sole dietro alla luna.
Perché non riusciamo a vedere tutto questo?
Noi invece chiamiamo meraviglie le sette costruzioni più pesanti che gli abbiamo appoggiato sulla schiena. Dalla Muraglia Cinese al Machu Picchu passando per il Cristo Redentore in Brasile ci siamo messi a costruire giocattoli giganteschi su tutto il suolo con la speranza che fossero grandi abbastanza da strabiliare tutti e sbattere contro il cielo. A lei basterebbe un colpetto di spalle per buttarli giù ma invece ci lascia tranquilli a divertirci.
Buttiamo cartacce per le scale, calpestiamo le aiuole e le incendiamo, non vogliamo spegnere la luce nemmeno quando andiamo a dormire, spargiamo gas nocivi da bombolette e lei ci sopporta ancora.
Non c’è amore più grande di quello che sta offrendo la Terra sopportando i suoi inquilini dispettosi e irrispettosi.
Adesso siamo stati messi dentro le nostre case come gli uccellini che abbiamo comprato un po’ tutti nei negozi di animali. Aprendo la finestra sentiamo la pace che esiste senza di noi. Camminiamo per le strade come se non ci appartenessero e capiamo che erano nostre. Respiriamo l’aria come un bene che non è più tanto scontato. Prendiamo il sole in faccia sentendone la sua immensa potenza.
Tutto questo tornerà ad essere nostro e sarà tra poco, quando la Terra ci scuserà per non essere stata capita e sentirà che siamo in grado di vivere il nostro condominio globale con un amore maggiore.
La Terra ci sgrida, ogni tanto, per ricordarci che è qui per noi. Diciamo che dopo un’assemblea di condominio dal bilancio negativo, siamo stati messi tutti un po’ a dormire. I brutti sogni alle volte servono a ricordaci cosa sarebbe meglio fare perché non si avverassero.
E quindi ora stiamo a casa, per un po’.
La Terra si rotola nella stanchezza e ci chiede di fare silenzio dopo quasi 5 miliardi di anni di vita.
© Alessia Tagliaferri